Il brainstorming è morto ma (forse) c’è un modo per farlo funzionare meglio
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Il brainstorming è morto. Almeno questo è quello che afferma il trainer berlinese Edoardo Binda Zane. Anche se il nostro punto di vista è un po’ meno drastico, ci troviamo d’accordo almeno su un punto: il brainstorming è rimasto all’età della pietra.
Il metodo ideato nel 1948 da Alex Osborn per la creazione di idee e strategie innovative sta decisamente con un piede nella fossa, e trova poca applicazione nella realtà. Nel suo articolo, Edoardo Zane prende in considerazione in particolare 3 problematiche del “brainstorming classico” e insiste sul perché sia ormai giunto il momento di superare il concetto di “creazione di idee” proposto da Osborn.
LA NOIA, UN TIMONE e LA STRATEGIA DELLO STRUZZO
Ammettiamolo, il più delle volte le sessioni di brainstorming seguono sempre lo stesso rituale standardizzato: un gruppo di persone attorno a un tavolo, una delle quali si incarica dell’onere di mettere per iscritto le idee dei partecipanti, e la missione della “creatività ad ogni costo”. È qui che Zane individua il primo problema della teoria classica del brainstorming: il dare per scontato che tutti abbiano la stessa voglia di partecipare e di essere creativi.
Nella realtà dei fatti le cose stanno diversamente, e la maggior parte dei partecipanti se ne sta in disparte a sonnecchiare o a giocare la strategia dello struzzo, in attesa che qualcun altro riceva un’illuminazione e prenda la parola al posto suo. In ogni sessione di brainstorming si può osservare come sia sempre una piccola parte dei partecipanti (uno o due al massimo) a prendere in mano il timone e a tracciare la rotta per il resto della ciurma.
È arrivato il momento di chiedersi come si sia arrivati a questo punto, perché la noia da sola non basta a spiegare le migliaia di sessioni di brainstorming fondamentalmente improduttive. Zane tocca nel suo articolo due punti cruciali che tracciano due possibili vie alternative di approccio al brainstorming.
CREATIVITÀ A COMANDO E PRESSIONE SOCIALE
In primo luogo va detto che non tutti riescono ad essere creativi quando gli viene chiesto di esserlo. Anche se Zane sostiene che la creatività sia una scienza che può essere appresa, non è scontato che tutti siano in grado di utilizzarla in maniera attiva e mirata, quando gli viene chiesto di farlo. Per buona parte della sessione di brainstorming, queste persone ascoltano in silenzio: vorrebbero partecipare ma in qualche modo non ci riescono.
Il secondo problema evidenziato da Zane è il risultato del tessuto socio-culturale in cui ci muoviamo e della pressione sociale che ci troviamo a subire. Questa pressione, per lo più dettata dall’impronta fortemente meritocratica della nostra società, agisce come un inibitore della creatività, impedendo a molti di liberare il proprio pieno potenziale. Personalità più timide e introverse trovano difficilmente il coraggio di prendere la parola di fronte agli altri, ed è difficile che presentino obiezioni di fronte a persone particolarmente carismatiche.
Lo stesso vale per chi ha scarsa autostima, per cui la percezione degli altri è spesso molto importante. Ma anche il desiderio di fare colpo sul proprio superiore e la paura di fallire sono tra le cause principali che hanno fatto del brainstorming una procedura cristallizzata, monotona, prevedibile e poco innovativa.
Zane conclude il suo articolo illustrando due possibili metodi per affrontare questo tipo di problemi: la Nominal Group Technique e il Metodo Delfi. In aggiunta a questi due, abbiamo selezionato altri 5 metodi che permettono di aggirare i due punti critici e trarre dal brainstorming i risultati sperati.